Line@editoriale n°6 - Vivere il confine

Vera Lúcia De OLIVEIRA
- Paris 8
veralucia.deoliveira@gmail.com

Il testo è una riflessione sull’esperienza del vivere e dello scrivere in due lingue, portoghese e italiano.

The text is a reflection on the experience of living and writing in two languages, Portuguese and Italian.

 

Il confine è un limite che unisce e divide nello stesso tempo, è un luogo di tensioni, « in bilico fra difensiva e offensiva » [1], barriera che isola e separa dall’altro, dallo straniero, dal diverso. Contigua al confine, c’è la frontiera, « la soglia attraverso la quale, se si desidera, si può entrare in contatto con l’altro » [2].

Il confine contiene in sé questa ambivalenza, racchiude l’essere entro il perimetro del proprio corpo, della propria identità, del proprio gruppo sociale, ma, allo stesso tempo, è il luogo per eccellenza della scoperta, dove si intersecano tempi e spazi dinamici che si aprono allo sguardo e che rappresentano sfide, terre nuove da esplorare, popoli e costumi ai quali avvicinarsi.

Quando sono stata invitata a partecipare a questo incontro, ho pensato di parlare delle questioni che noi poeti, e in più transnazionali, riusciamo a cogliere, forse meglio o forse solo in modo diverso, in funzione della nostra posizione scomoda, ma anche per un certo senso privilegiata, di vivere al confine di lingue, culture e paesi.

Inizio dicendo che il termine, spesso utilizzato, « letteratura degli immigrati » o « letteratura della migrazione » non è appropriato: o si parla di letteratura tout court o non si parla di letteratura, ma di testimonianze, cronache, biografie, diari. Il termine è anche troppo generalizzante e non distingue esperienze molto diverse fra loro, come può essere quella dell’esiliato, del rifugiato, dell’espatriato o dell’immigrato. Tale distinzione è importante perché da essa dipende la configurazione che certi temi assumono nell’opera di determinati scrittori. Alcuni sono ossessionati dall’esperienza dell’esilio, dalla nostalgia di una patria perduta, altri abbracciano il nuovo paese con passione, altri ancora si mettono in rotta di collisione con il presente, altri abitano un vano inospitale che non è un luogo né un tempo, come se fossero sospesi nel vuoto.

Per quanto mi riguarda, ho costruito tutto un percorso esistenziale e letterario adottando la posizione scomoda, difficile e anche un po’ azzardata di chi elegge la crisi come valore e, quindi, di abitare nel e sul confine. Non so se io abbia cercato consapevolmente questa posizione o mi sia ritrovata in essa, il fatto è che mi sono guardata e ho visto che, da quel luogo disagevole, potevo vedere meglio e, forse, vedere di più.

Non sono rifugiata o esiliata politica, non sono andata in Italia per necessità economica, né vi sono arrivata con il desiderio di stabilirmici per sempre. Sono andata in Italia per amore, perché ammiravo i suoi grandi intellettuali, artisti e poeti italiani. Mi ero appena laureata in Brasile e pensavo che conoscere l’Italia sarebbe stato il coronamento ideale dei miei studi. Per vari motivi, anche familiari, sono rimasta.

Se non vivo la condizione migrante come una perdita o un dolore, almeno fino ad oggi, i confini linguistici e culturali certamente hanno un peso e hanno generato e generano instabilità e attese. Vivo e scrivo in due lingue diverse, il portoghese e l’italiano, cercando di conciliare due culture anch’esse distanti fra loro.

Non vedo il bilinguismo come un processo di dispersione o di frammentazione dell’io, bensì come un viaggio nell’anima. Avevo parti di me stessa alle quali non avevo accesso in portoghese, casseforti che si sono aperte quando ho aggiunto, con la stessa intimità e pregnanza, la conoscenza dell’italiano. Ho seguito sempre il principio di non mescolare le lingue, perché ognuna ha il suo ambito, il suo universo, il suo ritmo. Inoltre, ho scoperto che potevo utilizzarle per partire e tornare da una lingua all’altra e di rendere, così, sempre presente la magia di vedere e di nominare le cose come se fosse la prima volta. Il bambino è poetico perché le parole gli servono per nominare il mondo, egli non si è ancora assuefatto ad esse, le pronunzia con stupore, convinto che nella parola ci sia qualcosa della realtà che egli nomina. I poeti conservano questo stupore, altrimenti non si accorgerebbero della magia che hanno certi vocaboli, anche di uso quotidiano. Ci sono grandissimi poeti, come il brasiliano Manuel Bandeira e l’italiano Giorgio Caproni, che mostrano che anche il registro linguistico più umile o più quotidiano è poetico quando ha in sé una carica di autenticità e di vita. Ogni lingua è una prospettiva sul mondo, ogni lingua nasce in un tempo e in uno spazio per rispondere alle esigenze di chi la parla, di chi l’ha plasmata nei secoli. Le lingue ci abitano e sono abitate da noi.

Quanto alle differenze culturali, sono nata e cresciuta in Brasile, un paese multiculturale, con persone originarie di tanti luoghi, migranti intenti a plasmare una nuova vita e una nuova patria. In tale contesto, la curiosità, l’interesse per l’altro e per il suo modo diverso di vivere e di pensare, di cucinare, di pregare, di piangere o di ridere, è un valore ed è la chiave di ogni rapporto sociale. Il sincretismo è una risorsa e, nonostante i tanti problemi di disparità che ancora ha il Brasile, prevale nella società brasiliana l’idea che il pluralismo, la mescolanza, il meticciato, al contrario di quel che pensano tanti in Italia, producono risultati nuovi e originali.

Penso che tale esperienza abbia senz’altro agevolato il mio inserimento in Italia. Ero curiosa di conoscere questo paese e la sua cultura. Ma la curiosità non può essere a senso unico, l’altro deve essere altrettanto curioso e interessato. Questa è stata la prima e più cocente delusione in Italia. È stata grande quella sensazione di perdita, nei confronti di chi non era minimamente interessato alla mia esperienza di vita, come io ero interessata alla loro, e sicuramente questo ha avuto il suo peso nella decisione di fare il dottorato e diventare docente di letteratura portoghese e brasiliana. Ho appagato così, nell’ambito del lavoro, in cui recupero il rapporto con la mia cultura d’origine, la sensazione di mutilazione provata all’inizio, nello scoprire che l’Italia è, in realtà, un paese chiuso, dove si pensa in generale di avere tanto da dare e da esportare, poco o nulla da apprendere dagli altri.

La crisi italiana deriva, credo, in parte anche da questo atteggiamento. Eppure i momenti più alti della filosofia, arte, letteratura, cinema, scienza, religione, l’Italia li ha raggiunti quando ha capito che bisognava mettersi in discussione, aprirsi ai contributi di altre lingue e culture. Pensiamo all’Umanesimo e al Rinascimento, frutto di un intrecciarsi di idee, modelli, impulsi e stimoli di rinnovamento, coraggio e onestà intellettuale.

Pensare un’identità come qualcosa di monolitico, di rigido e inalterabile è negare la storia italiana, fatta di amalgama e simbiosi culturali, di prestiti e appropriazioni che l’hanno arricchita nei secoli e che l’hanno portata ad assimilare e rielaborare in modo originale quel che di meglio avevano da offrire le civiltà e le culture con cui è entrata in contatto.

L’altro confine che abito è quella della poesia, linguaggio viscerale e radicale che ho scelto, in un tempo e in un mondo che fa tranquillamente a meno di esso. Ho desiderato fare la scrittrice sin da bambina, iniziando con i racconti, molti dei quali sono stati premiati. Il cambiamento di genere è avvenuto nel momento in cui mi sono avvicinata alla densità del linguaggio poetico, molto più idoneo al tipo di ricerca che andavo compiendo, alle tematiche di frontiera che mi sollecitavano. Afferma Lêdo Ivo, uno dei grandi poeti brasiliani: « c’è qualcosa, nell’uomo, dell’uomo e per l’uomo, che solo il poeta ha condizioni di dire » [3].

Che le parole facciamo ammalare e che abbiano il potere di guarire, prima ancora di Freud e Yung, lo avevano intuito i poeti. La poesia è il linguaggio della discesa nell’anima e nel cuore delle cose. Perché è un pensamento capace di sentire, perché è un sentimento pensante, essa è una forma di conoscenza interiore molto profonda, in molti casi alternativa alle categorie razionali del pensiero. I poeti, sostiene Umberto Galimberti, « sono tali perché debordano dai limiti della ragione, e per questo giustamente Heidegger li chiama i più arrischianti » [4].

È arrischiante camminare dentro il dolore e la morte. Eppure la poesia spesso scruta questi territori estremi dell’umano, per desiderio di contenere l’essere in tutte le sue dimensioni e confini, per fame di abitare e debordare questi stessi confini. Il primo e più doloroso confine che sfioriamo è quello della morte. Ho vissuto molto presto questa esperienza e mi ricordo ancora il momento in cui ho capito, da una risposta sibillina di mia madre, cosa fosse la morte. Ho provato in quel momento un dolore che non si è attenuato, come, credo, avvenga per molti di noi. L’idea della morte mi sembrò uno spreco enorme della natura, uno sperpero colossale di energia. Questo territorio estremo del viaggio umano e i suoi correlati, come la solitudine, il dolore, l’incomunicabilità, che ho preso l’abitudine di sondare e di sviscerare, ha sollecitato un tipo di linguaggio altrettanto viscerale.

Nel libro, Se questo è un uomo, Primo Levi scende nell’inferno di un campo di concentramento, espone la lingua e le sue sillabe all’abietto, alla degradazione dell’umano, all’orrore che milioni di uomini hanno attraversato nel cuore dell’Europa. Narrare questa immersione nel male assoluto, l’attraversamento dei limiti del dolore fisico e morale, diventò come sappiamo la ragione della sua vita.

Se Adorno afferma che, dopo Auschwitz, la poesia non è più possibile, Levi dimostra il contrario. Dopo tale esperienza, solo la poesia fu possibile, la poesia come linguaggio capace di comprendere il sentimento di annichilimento totale, di accompagnare una coscienza dentro la notte, di attraversare quella soglia e di permettere il ritorno al mondo degli uomini. Afferma Primo Levi: « Scrivevo poesie concise e sanguinose, raccontavo con vertigine, a voce e per scritto, tanto che poco a poco nacque poi un libro: scrivendo trovavo breve pace e mi sentivo ridiventare uomo » [5]. La sua è una parola poética che si condensa con tale intensità che non solo rivela, illumina e riordina il caos disumanizzante, ma salva, reintegra, trascende ed eleva; sfiora il confine dell’innominabile, il mistero della morte, oltre il quale nessun poeta è potuto andare portandosi dietro una lingua umana.

Non so se le mie parola possono guarire gli altri, so che mi aiutano a vivere, perché attraverso le parole vedo meglio e di più, incontro l’altro, e lo accolgo. La mia ultima raccolta, La carne quando è sola coglie dialoghi spezzati, monologhi di chi è solo dinanzi dinnanzi a Dio e al mondo, il corpo nudo esposto al tempo, il movimento della coscienza che si ribella, il desiderio di essere amati e la rabbia del rifiuto.

Ognuno di noi è attraversato da sentimenti contradditori, ognuno di noi – nel suo dentro – ha parole vere e estreme. Bisogna imparare di nuovo a distinguere, nel frastuono, le parole vere. Rivendico le voci, le parole umane autentiche come segno di noi, segno della nostra identità, della nostra attesa, della nostra consapevolezza, della gioia e dolore con cui attraversiamo la vita. Esse dicono di noi, sono l’orma lasciata sulla strada percorsa, esse ci aiutano a vivere e a guarire della ferita di essere fragili e finiti in un universo sconfinato che fa tranquillamente a meno di noi.


Questo testo è stato presentato all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi il 22 maggio 2012.



Bibliografia consultata


Theodor W. ADORNO, Mínima morali - Meditazioni della vita offesa(Minima Moralia: Reflexionen aus dem beschädigten Leben, 1951), trad. di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1994.

Giorgio AGAMBEN, O que é o contemporâneo? e outros ensaios, trad. di V. N. Honesko, Chapecó, Argos, 2009.

Luigi ANOLLI, La mente multiculturale, Bari, Editori Laterza e Il Sole 24 Ore, 2009.

Vera Lúcia de OLIVEIRA, La guarigione, Senigallia, La Fenice, 2000.

–, Il denso delle cose, Nardò (Lecce), Besa Editrice, 2007.

–, O músculo amargo do mundo, São Paulo, Editora Escrituras, 2014.

Umberto GALIMBERTI, « Che cos’è la follia », Il Venerdì di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 23 luglio 2011, p. 130.

Lêdo IVO, O vento do mar, Rio de Janeiro, Academia Brasileira de Letras e Contra Capa, 2011.

Vera Lúcia de Oliveira, nata a Cândido Mota, in Brasile, attualmente vive e lavora a Perugia, in Italia. È poeta, saggista e docente presso l'Università degli Studi di Perugia, dove insegna Letteratura Portoghese e Brasiliana. Scrive sia in portoghese che in italiano ed è presente in riviste e antologie poetiche pubblicate in Brasile, Italia, Portogallo, Francia, Spagna, Romania, Stati Uniti e Germania. In Italia, fa parte della redazione della rivista Fili d’aquilone.


Tra i principali riconoscimenti ricevuti si ricordano: il Premio Sandro Penna (1988), il Premio Nazionale di Poesia « Senigallia Spiaggia di Velluto » (2000), il Premio di Poesia dell’Accademia Brasiliana di Lettere (2005), il Premio « Popoli in cammino » (2005). È risultata fra i tre finalisti vincitori del Premio Internazionale di Poesia Pasolini (2006) e ha ricevuto a Brasília nel 2006 dal Presidente Luíz Inácio Lula da Silva il Premio Literatura para Todos, promosso dal Ministero dell’Educazione brasiliano, per la raccolta inedita Entre as junturas dos ossos, pubblicata in quello stesso anno in 110 mila esemplari distribuiti nelle scuole del Brasile. Nel 2009 ha ricevuto il « Premio Internazionale di Poesia Alinari », promosso dalla Fondazione Vittorio e Piero Alinari, di Firenze, in collaborazione con la Cattedra « Giuseppe Ungaretti » della Columbia University di New York, per la raccolta inedita La carne quando è sola.


Fra i libri pubblicati: Geografia d’ombra (poesia), Venezia, Fonèma, 1989 ; Poesia, mito e história no Modernismo brasileiro (saggio), São Paulo, Unesp e Edifurb, 2002 ; La guarigione (poesia), Senigallia, La Fenice, 2000 ; A chuva nos ruídos - Antologia Poética, São Paulo, Escrituras, 2004 ; Verrà l’anno (poesia), Santarcangelo di Romagna, Fara, 2005 ; Storie nella storia: Le parabole di Guimarães Rosa (saggio), Lecce, Pensa Multimedia, 2006 ; No coração da boca, São Paulo, Escrituras, 2006 ; Entre as junturas dos ossos (poesia), Brasília, Ministério da Educação, 2006 ; A poesia é um estado de transe (poesia), Portal Editora, São Paulo, 2010¸ La carne quando è sola, SEF, Firenze, 2011 ; O músculo amargo do mundo, São Paulo, Escrituras, 2014.


Oltre a numerosi saggi su poeti contemporanei apparsi in riviste di diversi paesi, ha curato antologie poetiche di Manuel Bandeira, Lêdo Ivo, Carlos Nejar e Nuno Júdice.

mail: veralucia.deoliveira@gmail.com

sito: http://www.veraluciadeoliveira.it


POESIE DI VERA LÚCIA DE OLIVEIRA

(dal libro Il denso delle cose: antologia poetica, Nardò, Besa Editrice, 2007)

Le traduzioni dal portoghese all’italiano - e viceversa - sono dell’autrice



RUA DE COMÉRCIO



sou poeta da cidade magra

da cidade que não

caminha

sou dessa planicidade

sou da violência das vidas

poeta da cidade que afunda casas

e pessoas

sou da puta da cidade que só tem

superfície


amanheço todo dia nua e estreita

como uma rua de comércio



STRADA COMMERCIALE



sono poeta della città magra

della città che non

cammina

sono di questa piattezza di città

sono della violenza delle vite

poeta della città che affonda case

e persone

sono della puttana di città che solo ha

superficie


mi sveglio ogni giorno nuda e stretta

come una strada commerciale




PEDAÇOS



estou estilhaçada

silêncios saem da boca

mansos

estava desenhando

palavras

perdi o jeito de amanhecer


tenho tantos pedaços

que sou quase infinita



PEZZI



sono frantumata

silenzi escono dalla bocca

tenui

stavo disegnando

parole

ho perso il modo di destarmi


sono in tanti pezzi

da essere quasi infinita





O BOJO DAS COISAS



ia subindo a ladeira

os casebres caiados

o vento

eriçando parreiras

o sol

fundo

feroz


o bojo

das coisas

ia grudando

na minha alma ia sulcando

seus regos

ia fincando-se

como as pedras se fincam

no osso mole da terra



IL DENSO DELLE COSE



salivo per il pendio

le casupole bianche

il vento

che rizzava le pergole

il sole

fondo

feroce


il denso

delle cose

si incollava

alla mia anima scavava

i suoi solchi

si conficcava

come le pietre si ficcano

nell’osso molle della terra



NEM TODO VERBO



nem todo verbo

há de sangrar

na vértebra

também com anestesia

se há de se ir

dissecá-lo


para que não se perca

a parte dentro do nome

o que se desgruda por último

a margem ao redor do nome

o que perscruta em nossa boca

a ausência do pronome



NON TUTTI I VERBI



non tutti i verbi

nella vertebra

sanguineranno

anche con anestesia

potranno essere

sezionati


in modo che non si perda

la parte dentro il nome

ciò che si stacca per ultimo

il margine intorno al nome

ciò che scruta nella bocca

la mancanza del pronome



AS COISAS



achava que as coisas dentro dos livros

eram mais verdadeiras do que fora

que as coisas nos livros e as pessoas

estavam no lugar certo e se destoavam

era só para depois retomarem o lugar

exato em que deveriam estar





LE COSE



pensava che le cose dentro i libri

erano più vere che fuori

che le cose nei libri e le persone

erano al posto giusto e se stonavano

era solo per poi ritornare al posto

esatto in cui dovevano stare



O CORPO



lavava o corpo dele com a alma nas mãos

ia tateando a carne fria que tanto amara e

odiara agora nada mais ficara senão

aquela pena nos músculos inertes

que tanto ela vira vibrar e arfar

de prazer e dor



IL CORPO



lavava il corpo di lui con l’anima in mano

sfiorava la carne fredda che tanto aveva amata e

odiata ora nulla più era rimasto se non

quella pena nei muscoli inerti

che tanto lei aveva visto vibrare e ansimare

di piacere e dolore



O FILHO



disseram-lhe do pai

quando já estava morto

ele na cidade grande

e o pai penando, não se fazia isso a um

irmão, não se deixava de fora uma pessoa

só porque ela precisou deixar a própria casa

perder-se numa cidade de cão sem ninguém

não se fazia essa maldade a um filho que nunca

mais ia poder dizer pai cheguei voltei pai



IL FIGLIO



gli dissero del padre

quando era già morto

lui nella grande città

e il padre a soffrire, non si fa questo a un

fratello, non si lascia fuori una persona

solo perché ha dovuto lasciare la propria casa

perdersi in una città da cani senza nessuno

non si fa questa cattiveria a un figlio che mai più

avrebbe potuto dire babbo sono arrivato sono tornato babbo



A MÚSICA



tenho a música dentro ela me habita

quando levanto ela já me espera

quando caminho ela caminha na minha frente

eu sempre estou dançando na minha carne

sempre estou ouvindo um som que a minha alma

sabe que existe apesar da dissonância

da minha vida



LA MUSICA



ho la musica dentro lei mi abita

quando mi alzo lei già mi aspetta

quando cammino lei mi cammina davanti

io sto sempre danzando nella mia carne

sto sempre sentendo un suono che la mia anima

sa che esiste malgrado la dissonanza

della mia vita



ESTRANHA



disse-lhe de abrupto

que não queria ser enterrada

naquele lugar

que não era dali

que aquela terra não haveria

de reconhecer a terra

de onde viera



ESTRANEA



gli disse all’improvviso

che non voleva essere seppellita

in quel posto

che non era di lì

che quella terra non avrebbe

riconosciuto la terra

da dove era venuta













POESIE DI VERA LÚCIA DE OLIVEIRA

(dal libroLa carne quando è sola, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011)

Le traduzioni dal portoghese all’italiano - e viceversa - sono dell’autrice







quanto era bello il mare azzurro d’estate il vento

fra i corridoi il bianco nelle case illuminate dal sole

poi ho visto le cose sformarsi e mettersi a soffrire

come se si fossero pentite della loro felicità


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dalla finestra sentiva il rumore del vento

la vita nel ventre pulsava

i rami sul vetro come unghie

appuntite laceravano la luce

convocavano Dio per vedere

la carne quando è sola


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camminare nel buio

incespicando a fatica

non si raggiunge l’uscita

non si fa che girare in cerchio

barcollare sui lembi

della stessa ferita


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dicevi la poesia è un lampo

la vedi ti acceca questo è il bello

e il brutto che la vorresti sempre

che vorresti quella vita vista

non quella che bisogna vivere

in attesa


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è una parola è una luce è una nube

che si apre e vedi Dio o vedi te stessa

e vedi nel buio della terra attraversare

una vena e quella è poi la vena che

bisogna toccare se la scossa

è grossa ci rimetti la pelle se la

scossa è grossa ci rimetti te stessa


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aveva imparato a osservare le rondini

sempre li a partire sempre lì a migrare

poi tornano non le stesse magari altre

della stessa famiglia della stessa specie

si trasmettono l’odore dei luoghi

si trasmettono la dimensione delle cose

la memoria le misure dei pieni e dei vuoti

il ritorno era sempre una ricognizione

come se ognuna dovessi all’altra

la strada da fare e quella già fatta


POESIE DI VERA LÚCIA DE OLIVEIRA

(dal libro Verrà l’anno, Fara Editore, Santarcangelo di Romagna, 2005)





i cani scappano lontano

hanno paura abbaiano

vogliono fuggire agli scoppi

strappano le catene si perdono

nella notte non sanno che oggi è

solo il primo giorno dell’anno


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ho tolto l’orologio dal polso

per saltare qualche minuto

e poi ritrovarmi avanti e

pensare ma che era quel

pungolo da una parte del

cuore che per sé batteva

con la punta fuori dal tempo?


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la notte era una luce da ogni parte e tutti guardavano

la pioggia di fuochi io dentro avevo un cuscino

ed ero contenta di non dover uscire

e dire che bella tutta questa lucentezza





l’anno nuovo è un sacchetto di dolci

lo apri gusti ogni pralina poi quella

si squaglia ne apri un’altra anche

quella si scioglie nell’attimo

in cui la sveglia segna un’ora


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ci sono momenti in cui cresciamo fuori e ci vedono

ci sono momenti in cui cresciamo dentro e solo

noi vediamo e siamo più grandi di un palazzo

e più grandi di una balena e nessuno dico nessuno

è capace di vedere quanto siamo cresciuti


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prima avevo una casa gialla

aveva bei finestroni che io schiudevo

alla luce e tutto era giallo dalle posate

alle tende dalle finestre alle pentole

poi una casa nera una tutta nera

ed eri felice perché la notte non

la temevi ma io dentro la notte

ero caduta dicevo non ci so stare

non trovo l’entrata né mai sono

capace di ritrovare l’uscita





sognavo una casa sulle spalle

come una lumaca dicevo

le lumachine non si stancheranno?

ma poi pensavo vuoi mettere

la comodità di partire

con dentro il corpo le pareti

per avvolgerlo?


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attorno al fuoco invitavo parole

chiamavo le cose ad accompagnarle

nel viaggio ignoto ma tu dicevi

ci metti troppi percorsi dentro

come si può stare in una storia

aperta a tutte le direzioni?


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se amava era con dolore

perché diceva debbo lavorare

come una bestia e poi sempre

stare a correre dietro l’oro

di un fagiolo dico non basta

essere nato povero dovrei

anche morire povero?





per certi bordi cammino mamma

ma guardo bene non ti inquietare

so stare attenta e quasi scivolo

ma poi ritrovo l’equilibrio

se non dovessi più farcela

prometto che ti richiamo


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bene diceva bambini miei ora vi amo

sempre ho amato nel buio dell’amore

(perché l’amore ha un buio)

e poi dentro quel dentro ho sentito

una fitta non so dove e poi

pensavo tanto li amo questo

mi può bastare


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c’è una goccia in cucina

che misura i secondi

neanche uno va via

senza che lei lo conti





c’era un vento leggero

lo sentivo sul tetto

sfregarsi alle tegole

strusciarsi pare

avesse preso gusto

ad annusarle


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dopo che era passato

provava la spossatezza

diceva cosa avrò mai fatto

di così pesante sembra

abbia attraversato

l’intero millennio

anziché l’istante




Notes

1 -  Luigi ANOLLI, La mente multiculturale, Bari, Editori Laterza e Il Sole 24 Ore, 2009, p. 130.
2 -  Luigi ANOLLI, op. cit., p. 167.
3 -  Lêdo IVO, O vento do mar, Rio de Janeiro, Academia Brasileira de Letras e Contra Capa, 2011, p. XII-XIII.
4 -  Umberto GALIMBERTI, « Che cos’è la follia », in Il Venerdì di Repubblica, Roma, Gruppo Editoriale l’Espresso, 23 luglio 2011, p. 130.
5 -  Primo LEVI, Se questo è un uomo, in Opere, volume I, Torino, Einaudi, 1987, p. XLV.

Pour citer cet article :

Vera Lúcia De OLIVEIRA, « Vivere il confine », Line@editoriale, n°6 (2014) - 2014, [54-74], mis en ligne le 25/11/2014.
URL : http://e-revues.pum.univ-tlse2.fr/sdx2/lineaeditoriale/article.xsp?numero=6&id_article=Article_006-194.
Consulté le 29/03/2015.
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